La Pagina numero 3, con il colore verde che contraddistingue l’area Progetti e Servizi, attraverso le voci di alcuni dei protagonisti interni ed esterni della fondazione, è dedicata alle parole chiave del nostro agire come alleanza, comunità e ascolto, chiavi di volta per una nuova cultura della cura

Alleanza, comunità e ascolto: le chiavi di volta per una nuova cultura della cura

Milioni di italiani si prendono cura di almeno una persona anziana in condizione di fragilità. E il luogo di elezione della cura è la casa, ovvero il perimetro dentro cui le persone anziane possono sentirsi più al sicuro. Tuttavia, come sottolineano gli organismi internazionali, la possibilità di invecchiare a casa non basta: è essenziale che le persone anziane rimangano incluse nelle comunità di riferimento.

Contrastare il rischio di isolamento è uno dei pilastri su cui si basa il lavoro della nostra fondazione, che nel tempo si è impegnata ad adattarsi alle trasformazioni della società e delle sue esigenze. Ed è con questo proposito che le attività del Progetto Alzheimer [P.A., ndr] sono entrate a far parte della rete di servizi CuraMi & ProteggiMi [C&P, ndr].

Per raccontare le ragioni e le prospettive di questo cambiamento, abbiamo raccolto la voce di alcuni dei suoi protagonisti.

Perché abbiamo bisogno di un nuovo approccio alla cura?

«Siamo di fronte a fenomeni molto delicati per le agende pubbliche dei vari Paesi, in particolare il nostro» sottolinea Marco Trabucchi, direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia. «Pensiamo alla crisi economica mondiale e quindi alla contrazione degli investimenti nel welfare; allo sbilanciamento demografico e alla fatica di attrarre operatori verso le professioni sanitarie e assistenziali; alle difficoltà economiche dei servizi residenziali e alle resistenze incontrate dalle innovazioni tecnologiche. Esiste poi uno strisciante ageismo che in situazioni di crisi potrebbe far sembrare che la cura dei vecchi sia una spesa inutile».

Come uscirne, quindi?

«Servono risorse per una grande innovazione» continua Tabucchi. «Il modello prevalente è quello della cura a casa, che però fornisce risposte insufficienti e prestazioni frammentate. Quanto è efficace l’assistenza se la persona non esce mai, non vede amici, non fa attività fisica? Servono piani di intervento, una lettura condivisa che aggreghi risorse e integri le risposte delle famiglie. Una regia territoriale con équipe multiprofessionali che elaborino risposte differenziate sulla base dei bisogni delle singole persone. Un’alleanza con il tessuto esistenziale dell’anziano e con la sua rete familiare o amicale».

In che modo l’integrazione di P.A. all’interno di C&P può fornire delle risposte?

«È un passo per offrire maggiore supporto alle persone anziane e alle loro famiglie» risponde Chiara Bertelli, coordinatrice della rete di servizi. «Assistenza familiare e domiciliare, formazione per i familiari e corsi di digitalizzazione, supporto amministrativo, psicologico e legale, laboratori di gruppo: queste sono alcune delle aree su cui ci concentriamo. Lavoriamo per creare un sistema di supporto affinché le persone anziane possano mantenere una vita dignitosa e sana, offrendo sollievo e maggiore sicurezza anche alle famiglie».

Quali traguardi sono stati raggiunti fino a oggi?

«Il P.A. ha lavorato fin dall’inizio in sinergia con i servizi sociali di Milano e con varie realtà del settore» racconta Anna Tomasina, coordinatrice del progetto, «offrendo aiuti economici, organizzativi e psicologici. La collaborazione con la rete di C&P si è rafforzata nel 2023: da allora abbiamo affiancato circa 200 persone con demenza».

Come sono cambiate le esigenze di famiglie e caregiver?

«Innanzitutto, le figlie delle assistenti familiari non vogliono ereditare il lavoro delle madri» afferma Antonio Guaita, geriatra e direttore della Fondazione Golgi Cenci «o comunque non sono disponibili a convivere con l’assistito. Ma la spesa delle famiglie è già insostenibile e strutturare l’assistenza quotidiana in tre turni costa più della retta di una RSA. Occorre quindi un cambiamento organizzativo: centri unici di consulenza con operatori specializzati nei servizi esistenti, dove le famiglie trovino affiancamento per individuare il programma di cura e distribuire il carico assistenziale. Almeno una parte delle ore di assistenza dovrebbe spostarsi su soluzioni collettive, come i Centri Diurni Alzheimer o il Diurno Continuo del Golgi di Abbiategrasso. Inoltre, le famiglie chiedono informazioni sulla malattia e su come affrontare i problemi quotidiani, anche quelli relazionali. Necessitano di indicazioni accessibili, fornite per esempio al telefono, tramite video in rete o in videochiamata. Oggi la sfida è proseguire nella sperimentazione di prototipi di esperienze. Il P.A., per la posizione indipendente della fondazione che lo sostiene, può essere di riferimento per altre realtà private e pubbliche».

«Proprio per venire incontro a questa sfida» spiega Carla Piersanti, responsabile dell’Area Progetti e Servizi di Fondazione Ravasi Garzanti, «stiamo costruendo alleanze strategiche con organizzazioni del territorio, milanese e non. Vogliamo favorire la diffusione e la sostenibilità delle singole buone pratiche, in modo da incidere a livello di sistema e trasformare gli assetti dei quartieri e della città. Allo stesso tempo, vogliamo sostenere i caregiver affinché assumano una visione orientata alla loro autonomia. Lo sforzo collettivo è fondamentale: collaborare con enti pubblici, privati e no profit significa unire risorse, competenze e reti di contatti, creando un sistema di supporto più robusto. Le alleanze possono affrontare sfide complesse favorendo l’innovazione e l’accesso a opportunità che altrimenti sarebbero difficili da raggiungere. Si rafforza la capacità di risposta alle esigenze della comunità, oltre che la sostenibilità e la resilienza dei progetti a lungo termine».

Come si può favorire il dialogo tra individuo e comunità?

«La cornice assistenziale costituita dal binomio casa/famiglia si deve ampliare a tutta la città di Milano: è così che le famiglie possono condividere il loro carico con la comunità.  A questo scopo sviluppiamo iniziative importanti che mirano a integrare le persone con demenza e i loro caregiver nella vita sociale della comunità, secondo il modello della Dementia Friendly Community» racconta Katia Stoico, psicogerontologa del Progetto Alzheimer. «Per esempio gli Alzheimer Cafè ospitati negli storici bar milanesi e le attività di sostegno alle biblioteche comunali, che si stanno evolvendo verso luoghi di confronto e sensibilizzazione dove realizzare iniziative e servizi anche nell’ambito della demenza».

Quanto è importante condividere il carico di cura con la collettività?

«Partecipare ad attività collettive e restare nelle comunità di appartenenza può aiutare ad alleviare il carico assistenziale del caregiver. Le persone con decadimento cognitivo rischiano di restare isolate in casa» sottolinea Rui Quintas, psicologo-psicoterapeuta del Progetto Alzheimer. «Ci troviamo spesso a intervenire in situazioni in cui le risorse psicologiche ed energetiche sono esaurite, con conseguenze sul benessere psicofisico. È cruciale fornire informazioni per adattarsi alle varie fasi della malattia, fare spazio alle emozioni spesso faticose che provano familiari e badanti, come senso di colpa, insicurezza e vergogna, e offrire servizi che sollevino i caregiver dal lavoro di cura, almeno per qualche ora».

Ci auguriamo, quindi, che una nuova alleanza intergenerazionale e il coinvolgimento di dell’intera comunità diventino la chiave di volta verso una nuova cultura della cura intesa come competenza di tutte le persone in qualunque età della vita.

A cura dell’Area Progetti e Servizi di Fondazione Ravasi Garzanti