La Pagina è un inedito strumento di comunicazione in cui la Fondazione si propone di raccontare che cos’è e che cosa fa attraverso la voce dei suoi partner. La Pagina numero 1, con il colore rosso che contraddistingue l’area Cultura, accoglie la testimonianza di Andrée Ruth Shammah, anima del Teatro Franco Parenti, con cui dal 2022 è iniziato il percorso di La Grande Età

Conversazione con Andrée Ruth Shammah, anima del Teatro Franco Parenti

L’invecchiamento è in cerca di parole. Vive di un paradosso: l’ossessione per il problema e una curiosa assenza di approcci creativi. L’immagine del problema scarta ogni altra considerazione. Accettando la mistica terribile della vecchiaia come decadenza, disfacimento, declino, peso per gli altri, creiamo e rafforziamo l’immagine della nostra dipendenza e impotenza futura.

Eppure anche la vecchiaia è un’invenzione sociale, e come le altre età della vita è esposta alla vulnerabilità della natura e del contesto. Si arriva alla vecchiaia da percorsi molto diversi e dentro di noi abitano tante esistenze, anche quando si è molto fragili: il concentrarsi sulla malattia toglie importanza ad altri aspetti quali la creatività, il benessere, la felicità. Come scriveva lo psicanalista Carl Jung: “un essere umano non vivrebbe certo tanto da arrivare a 70/80 anni se questa longevità non avesse nessun significato per la specie. Una novità assoluta per la razza umana!”

Da alcuni anni, come Fondazione siamo in cerca di parole nuove, parole generatrici di movimenti per immaginare aree di innovazione perché la città della longevità non inizia quando una popolazione diventa vecchia. Per alzare il velo delle ovvietà, con la consapevolezza che la realtà è fatta di relazioni prima che di oggetti, ci siamo messi in viaggio e abbiamo incontrato molte “anime in cammino”, convinte come noi che gli anni guadagnati siano una dote da usare al meglio per realizzare la propria personalissima vocazione.

Un’autentica contaminazione è nata con il Teatro Franco Parenti, la cui anima è incarnata in Andrée Ruth Shammah. La Grande Età, titolo scelto per mettere in luce le potenzialità di ogni stagione della vita e il ruolo generativo che le persone anziane possono continuare a svolgere all’interno della città, viene da lei.

Fin dai nostri primi incontri è scattato subito anche un interesse personale, oltre alla possibilità di una nuova visione per il teatro. Dopo la terribile esperienza della pandemia, la parola “fragilità” mi tornava spesso alla mente come un significante fuori posto se applicato solo ai vecchi: rimuginavo su cosa volesse dire essere vecchi: rimuginavo su cosa volesse dire la forza e che cosa sia la fragilità. Quando vi ho conosciuto e ascoltato il modo in cui ragionavate di longevità mi si è aperto un varco che ha permesso alle mie domande di non essere più neutre ma puntuali e con un risvolto che mi apparteneva. Quelle domande mi hanno permesso di togliere un velo di ovvietà al tema dell’invecchiare e adottare contenuti che da allora hanno trovato una dimora in me, mi appartengono. Da quel momento la collaborazione con la Fondazione ha stimolato e sollecitato il Teatro ad assumere uno sguardo meno opacizzato dagli stereotipi del processo di invecchiamento.

Viviamo in un’epoca di semplificazioni, dobbiamo fare lo sforzo, davanti ad una realtà mutata, di pensare in un altro modo. Davanti ad una città che non ha qualche vecchio o vecchia ma migliaia di persone con più di 65 anni, un Occidente dove le guerre sono tornate prepotenti e disastrose, dove il tema ambientale ha reso lo scenario unico e mondiale: ecco, davanti a fenomeni mai esistiti, senti dire cose di 20 anni fa, molto superficiali. Siamo a Milano, luogo di eccellenza, ricca di cervelli attenti su tanti argomenti, eppure leggo un’incapacità a disinnescare automatismi e rigidità della mente per aprire brecce di pensiero innovative. Sono molto preoccupata perché oltre alla disinformazione, non vedo, tranne il Presidente Mattarella, chi possa avere l’autorevolezza del suo pensiero su questioni che toccano la nostra vita, la nostra quotidianità: il pensiero vaga dall’insofferenza alla sofferenza senza aiutarci a interpretare il prossimo come l’altro con cui condividere parti delle nostre esistenze. Penso che una speranza venga dai vecchi, più lenti certo ma più capaci forse di salvarci da un mondo tanto veloce che semplifica troppo. I vecchi sono portatori di un’altra cultura, abituati a scrivere le parole per intero e non a mettere la k invece del che: finchè sono vivi, ed oggi sono tanti, c’è una zona del mondo che sa cosa vuol dire articolare un pensiero senza fretta.

Il titolo della nostra rassegna “La grande età” quest’anno si è evoluta ne “La grande età, insieme”. L’avverbio diventa una provocazione: partiamo dal presupposto che si può avere e sentire una grande età da giovani, da adulti, da anziani ma va fatto insieme, nel mondo. Non è precisato: è insieme ai giovani ma vuol dire anche fra gli anziani stessi; ipotizza che una delle verità della grande età è che può creare una complicità, un’alleanza, una socialità. La grande età è un pensiero contro la solitudine. E’ un titolo che traccia un’evoluzione della nostra collaborazione, per includere i più giovani entro un’idea di città solidale; nello stesso tempo, la parola contiene l’idea di compassione intesa come vivere insieme una passione, entrare nella logica degli altri intellettualmente per cercare di capirne le ragioni, ma anche guardare al prossimo, in questo caso ai vecchi con ammirazione come co-protagonisti di una continua attività di risposta alla vita.

Non temo la solitudine o meglio vedo due facce della solitudine. Da un lato un dover essere che spinge molte persone anziane a dover essere falsamente allegre, quasi a dover confortare e proteggere gli altri dalle paure dell’invecchiare. E allora l’isolamento diventa una protezione da un ruolo a cui non si vuole più rispondere come prima e questo tende a rendere il territorio del vecchio ancora più piccolo e ristretto. Dall’altro, la solitudine è una condizione necessaria da abitare per dare voce all’essenziale e alla propria felicità. Riuscire a stare soli è una conquista, è un punto di arrivo. Ma bisogna prepararsi per tempo.

Si, parlo di felicità citando il lavoro di un grande filosofo francese: la felicità come opera d’arte. Secondo Vladimir Jankélévitch la felicità è un pensiero che emerge quando torni indietro nella vita e ricordi quello che hai alle spalle, facendo riemergere ciò che ti ha reso felice, scegliendo fra le diverse esperienze vissute. Dal momento che la felicità viene solo dopo, perché quando vivi puoi al massimo essere esaltato, emozionato, questa operazione di recupero è l’opera d’arte che ogni persona compie con i suoi ricordi, mettendo assieme le cose belle, senza ovviamente negare le altre. E questa è un’operazione di selezione, in cui si dà voce al testimone muto, anche buio, della propria vicenda umana.

La mia cultura di appartenenza, il pensiero ebraico, ha una grandissima qualità: allena sin da piccoli a nutrire approcci complessi. Credo sia quello di cui abbiamo grande bisogno oggi: allenare la mente con elaborazioni continue, consapevoli che l’esperienza di vita ti consegna esperienze contraddittorie, ogni fase ha risvolti diversi, incerti e dolorosi e questa è la tua verità. Ecco perché la grande età può dare molto in questi tempi di semplificazione, perché ti parla della complessità, non come una lezione o un modello ma come un’esperienza quotidiana: in un dato momento puoi sentire dolore ma anche leggerezza, puoi giudicare inadatto un figlio o un genitore ma anche apprezzarne l’ingenuità o la testardaggine. Se riusciamo ad essere i maestri del “ma anche” – e lo sono soprattutto le donne abituate alle difficili combinazioni delle proprie ed altrui esistenze – allora la vostra iniziativa come Fondazione, e noi vostri alleati, può parlare alla città dei vecchi che soffrono ma anche della loro segreta felicità di essere arrivati fino a quella età. Non significa negare che sia faticoso essere vecchi ma che insieme rimane un fervore della vita, spesso si è più vivi di quanto sembrava possibile. E questa esperienza che allarga continuamente la comprensione e la riflessione sulla varietà delle nostre esperienze di vita è senza fine. Ora abbiamo messo accanto la parola “insieme” proprio per evocare il rapporto con i giovani, ne aggiungeremo altre perché altre ci verranno in mente ed apriranno a quel moltiplicarsi del reale che è la vita.

Lo scenario cambia e noi non possiamo continuare a pensare con gli schemi di prima. Rimango innamorata di questo approccio perché è anche la funzione del teatro: rimettere ogni volta tutto in discussione. Allestisci una scena o un testo e poi li smonti e ne cominci altri. Ogni volta la scena si rinnova, non può non rinnovarsi, devi sapere che hai fatto una cosa e poi…non c’è più niente e 40 giorni di prove in cui si impazzisce tutti e poi finisce e non rimane nulla. Questo vuol dire ripensare, ricominciare, riflettere: più penso e più torno alla ginnastica della mente che dobbiamo rivendicare contro il pensiero dominante che guarda ai vecchi come inadatti alla vita moderna.

A cura di Elisabetta Donati, Direttrice Area Cultura e Ricerca